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Il tasto pausa della gravidanza

(Perdonate il meseabbondante di assenza, ma sono prima stato in vacanza in Sicilia, poi ho dovuto fare carte per un lavoro che -forse- avrò, eccetera. Ho un bel po’ di cose su cui mettermi in pari, spero di riuscirci)

Vorreste rimanere giovani per sempre, come Peter Pan? O perlomeno ogni tanto poter cliccare su “pausa” e smettere di invecchiare per un po’, ricominciando quando ve la sentite? Beh, per ora non è esattamente possibile. Ma lo è stato, almeno in principio, quando eravate piccoli. Molto piccoli. Quando eravate degli embrioni.

Si chiama diapausa, ed è un meccanismo con cui alcuni mammiferi possono fermare temporaneamente (per periodi di tempo lunghi, anche fino a 300 giorni!) lo sviluppo di un embrione, e farlo poi ricominciare quando opportuno. Per esempio i caprioli lo fanno per assicurarsi che i cuccioli nascano in primavera, e non a casaccio lungo l’anno. L’embrione rimane lì, senza crescere, sopravvivendo per mesi dormiente, e ricomincia a crescere solo quando è il momento.

La diapausa, normalmente, non accade in tutti i mammiferi, ma solo in alcuni di questi, sparpagliati qua e là nell’albero evolutivo – in particolare in specie che vivono in ambienti dalle condizioni particolarmente avverse o precarie. Da qui la convinzione che si fosse evoluta numerose volte indipendentemente -in altre parole, che l’evoluzione l’abbia riscoperta come comodo metodo per salvare la prole in situazioni di emergenza.

E invece no. A quanto pare tutti i mammiferi sono capaci di entrare, come embrioni, in diapausa -anche se normalmente in natura non sembra accadere. L’hanno dimostrato Grazyna E.Ptak e altri, in una collaborazione tra l’Università di Teramo e l’Accademia delle Scienze di Jastrzebiec in Polonia.

Come l’hanno dimostrato? Semplice, hanno preso una specie (la pecora) in cui la diapausa non accade praticamente mai -peraltro una specie addomesticata, in cui non ha senso che si sia mantenuto il meccanismo- e hanno impiantato un embrione di pecora in una specie in cui la diapausa accade (il topo). Hanno indotto poi nel topo le condizioni in cui questo preme il tasto pausa sull’embrione (in modo un po’ brutale ma efficace: rimuovendo le ovaie -agli animalisti questo non piacerà forse)… e voilà, l’embrione di pecora è andato in diapausa. In parole poverissime, anche l’embrione di pecora ha il tasto “pausa”, solo che normalmente le pecore non lo usano.

Il team italo/polacco spara un po’ alto titolando che la diapausa è conservata sicuramente in tutti i mammiferi, ma di certo dimostra che anche in specie in cui la diapausa non accade apparentemente in natura, c’è comunque tutto il meccanismo pronto ad intervenire, conservato -e quindi è probabile che questo possa accadere, potenzialmente, in tutti i mammiferi. Compresi gli esseri umani. Capire come questo accada, e se si possa indurre negli esseri umani, immagino potrebbe essere una svolta nella gestione delle gravidanze e degli aborti spontanei. O semplicemente potreste programmare la data più comoda per far nascere vostra figlia.

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Ptak, G., Tacconi, E., Czernik, M., Toschi, P., Modlinski, J., & Loi, P. (2012). Embryonic Diapause Is Conserved across Mammals PLoS ONE, 7 (3) DOI: 10.1371/journal.pone.0033027

Lo spazio fa cattivo sangue

Bello fare l’astronauta. Ma sì, spassiamocela a rotolare senza peso, guardare la Terra azzurra fuori dal finestrino, fare le bolle col succo di frutta.

Come tutte le cose divertenti, girellare nello spazio ha le sue conseguenze nefaste. È noto da tempo che soggiornare a gravità zero ha degli effetti negativi sulla salute: quasi tutti sanno, per esempio, gli effetti nefasti della microgravità sulle ossa e i muscoli, motivo per cui gli astronauti (cosmonauti, taikonauti) devono fare parecchia ginnastica in volo.

Oggi aggiungiamo un’altra voce alla cartella clinica degli astronauti. O quanto meno ai topi astronauti.

Angela Maria Rizzo e colleghe infatti hanno trovato che, per i topi, la permanenza nello spazio danneggia i globuli rossi. Le ricercatrici hanno confrontato le analisi del sangue di topi portati sulla ISS (la stazione spaziale internazionale) per più di 100 giorni con quelle di topi identici, ma rimasti sulla Terra. E hanno trovato che i globuli rossi dei topi astronauti hanno vari problemi, tra cui gravi danni da stress ossidativo generato da radicali liberi. Insomma, sono rovinati. Inoltre in generale i globuli rossi sono più fragili, di più, e le piastrine più alte, tutti sintomi del fatto che il tessuto sanguigno è sottoposto a stress. Il motivo non è affatto chiaro, ma potrebbe essere un po’ la microgravità, un po’ i raggi cosmici.

Queste non sono buone notizie per chi un giorno vorrà farsi un anno di viaggio per camminare su Marte. Ma del resto pare che non vogliano neanche farli tornare a casa…

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Rizzo, A., Corsetto, P., Montorfano, G., Milani, S., Zava, S., Tavella, S., Cancedda, R., & Berra, B. (2012). Effects of Long-Term Space Flight on Erythrocytes and Oxidative Stress of Rodents PLoS ONE, 7 (3) DOI: 10.1371/journal.pone.0032361

Timidi o esploratori? Colpa dei recettori.

C’è topo e topo, come sa chiunque abbia visto Ratatouille. Ci sono topi timidi, che preferiscono starsene rintanati a casa propria e topi coraggiosi, che si lanciano a esplorare il mondo. Nonchè topi che decidono di volta in volta se correre rischi. Ma cosa c’è nel cervello che fa la differenza?

Daniela Laricchiuta e colleghe, del Centro Europeo per la Ricerca sul Cervello (CERC)/Fondazione Santa Lucia e del Dipartimento di Psicologia alla Sapienza di Roma, sono andate a cercare proprio questo.

Hanno preso una popolazione di topi e li hanno sottoposti a un semplice test: scegliere se infilarsi in un corridoio nero (ma vuoto), o in uno bianco (ma con del cibo in fondo). Questo li pone davanti a un dilemma: un ambiente rassicurante, ma senza niente, come il corridoio nero (ricordate che ai topolini piace il buio), oppure un ambiente inquietante ma con qualcosa di buono alla fine?

Le ricercatrici hanno poi separato i topi che regolarmente prendevano l’iniziativa di esplorare il corridoio bianco, quelli che regolarmente preferivano il corridoio rassicurante nero, o quelli che facevano un po’ e un po’. Stabilito tramite altri test comportamentali che la differenza non era dovuta semplicemente a quanta fame avevano i diversi topolini, hanno analizzato cosa ci fosse di diverso nel loro sistema nervoso.

Salta fuori che la colpa è di un balletto di neurotrasmettitori. Nei topi esploratori infatti la stimolazione dei recettori CB1 (recettori per gli endocannabinoidi, una classe di neurotrasmettitori) influenza direttamente e fortemente la trasmissione di segnali nervosi mediati da un’altra molecola, il GABA (o se volete acido gamma-amminobutirrico). Nei topi più conservatori invece stimolare i recettori CB1 non alterava affatto la trasmissione dovuta al GABA.

Una volta noto il giochetto le ricercatrici hanno potuto invertire selettivamente il comportamento dei due gruppi più estremi di topi semplicemente dandogli dei farmaci che attivassero o inibissero la staffetta di neurotrasmettitori. Con una molecola i topi timidi sono diventati audaci, e con un’altra i topi audaci si sono intimiditi.

Non solo è meraviglioso vedere come una differenza di carattere si riduca elegantemente a una differenza biochimica, ma mi viene da pensare che una cura per la timidezza patologica potrebbe essere più vicina di quanto sembri.

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Laricchiuta, D., Rossi, S., Musella, A., De Chiara, V., Cutuli, D., Centonze, D., & Petrosini, L. (2012). Differences in Spontaneously Avoiding or Approaching Mice Reflect Differences in CB1-Mediated Signaling of Dorsal Striatal Transmission PLoS ONE, 7 (3) DOI: 10.1371/journal.pone.0033260

 

La tomba del vicino è sempre più verde

Lay her i’ the earth;
And from her fair and unpolluted flesh
May violets spring!

(William Shakespeare, Amleto, Act V, scene 1, line 261.)

Nel film Una cena quasi perfetta una compagnia di ragazzi invita a cena personaggi politicamente discutibili, e dopo averci parlato per capire se si possano redimere o meno, decide di fare del bene all’umanità eliminandoli e seppellendoli in giardino. Per camuffare le sepolture il club di assassini decide di piantarci sopra dei rigogliosi pomodori.

Mettere dei pomodori sopra una sepoltura frettolosa del vostro ultimo omicidio in effetti può attirare l’attenzione più che altro. Forse conviene lasciare tutto com’è.

E invece secondo Marco Caccianiga e colleghe, al dipartimento di biologia e al laboratorio di medicina legale dell’Università di Milano, le piante comunque tradiscono il nostro assassino. Sopra alla sepoltura improvvisata infatti il microambiente cambia -e quindi anche il tipo di piante che ci crescono sopra.

Per capire come, i ricercatori sono andati nel parco del Ticino e hanno sepolto 90 cm sotto terra, all’aperto, non degli esseri umani (so che un po’ ci speravate) ma cinque carcasse di maiali. Inoltre hanno preparato una sepoltura di controllo (dove hanno scavato e poi richiuso, ma senza maiale dentro) e poi hanno seguito la vegetazione nel periodo di un anno, da maggio 2009 a maggio 2010.

Hanno così trovato che effettivamente la vegetazione sopra le sepolture, anche a distanza di un anno, era significativamente diversa da quella del terreno non disturbato. Abbastanza curiosamente però la presenza o meno della salma sotto terra non influenza il discorso: anche la sepoltura vuota presentava più o meno le stesse piante delle sepolture piene -ed era diversa dal terreno indisturbato. Il fattore chiave sembra essere quindi il disturbo e rimescolamento del terreno, più che la decomposizione del cadavere.

La prossima volta che vedete una strana chiazza di piante nel giardino del vostro vicino, quindi, fatevi delle domande: magari ci ha seppellito la nonna. O forse si è solo divertito con una vanga.

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Caccianiga, M., Bottacin, S., & Cattaneo, C. (2012). Vegetation Dynamics as a Tool for Detecting Clandestine Graves. Journal of Forensic Sciences DOI: 10.1111/j.1556-4029.2012.02071.x

Ai pulcini piace la buona musica

Magari alcuni di voi (come me) saranno stati avvelenati a forza di musica dodecafonica, harsh noise giapponese e altre stramberie, ma diciamoci la verità: alla maggior parte degli esseri umani piace un minimo di melodia. Dove melodia si traduce, in termini un pelo più tecnici, in musiche che seguano accordi consonanti piuttosto che dissonanti.

Ora, cosa sia consonante o meno è un discorso complicato e che dipende anche un poco dalla storia e cultura musicale in cui vi trovate -ma diciamo che è la differenza tra un accordo di chitarra fatto bene e uno sbagliato, che “stona”, per dire. Non voglio entrare dentro al merito della musicologia (materia in cui sono ignorantissimo), e vi rimando quindi a wikipedia e sopratutto a questo breve e illuminante video dove vi suonano intervalli consonanti e dissonanti.

Uno potrebbe domandarsi se questa preferenza sia esclusiva degli esseri umani. Si sa che alcuni animali possono distinguere tra i due tipi di accordo, ma non si sa se abbiano delle preferenze: in almeno un caso (i tamarin, delle simpatiche scimmiette baffute del Sudamerica) sappiamo di no.

Ora, Cinzia Chiandetti e Giorgio Vallortigara, rispettivamente all’Università di Trento e di Trieste, hanno dato una prima risposta a questa domanda. Sembra infatti che i pulcini delle galline abbiano una moderata ma misurabile preferenza per le musiche consonanti rispetto a quelle dissonanti.

L'apparato sperimentale di Chiandetti e Vallortigara

Per capirlo hanno preso i pulcini appena nati, mai esposti a suoni prima, e li hanno messi in mezzo a due altoparlanti, uno che suona una musica consonante, un altro che suona una versione dissonante della stessa melodia. E i pulcini (a seconda della specifica melodia) preferiscono dirigersi verso l’altoparlante che suona la musica consonante, passando lì vicino dal 55 al 75% del tempo.

Come mai? Gli autori fanno l’ipotesi che questo derivi dal fatto che suoni consonanti abbiano uno spettro di frequenze simile a quello dei suoni che si trovano in natura, e quindi i pulcini abbiano una preferenza innata per tali suoni. Lo studio di Chiandetti e Vallortigara è lungi dall’essere conclusivo (quanto conta il timbro dello strumento? cosa succede confrontando molte melodie diverse? mettere insieme due altoparlanti che suonano due musiche diverse contemporaneamente non genera effetti di sovrapposizione tra le musiche, rischiando di falsare il risultato?) però intanto ci dice che anche un pulcino appena nato può avere dei gusti musicali. Se preferite Burzum a Jovanotti, insomma, potrebbe anche essere questione di geni.

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Chiandetti, C., & Vallortigara, G. (2011). Chicks Like Consonant Music Psychological Science, 22 (10), 1270-1273 DOI: 10.1177/0956797611418244

Nuovi virus nelle zanzare (per ora)

I flavivirus (letteralmente “virus gialli”) sono delle brutte bestiole: tra di loro si trovano gli agenti patogeni di malattie come la febbre gialla (che dà il nome alla famiglia) il dengue, l’encefalite da zecche e altri malanni più o meno antipatici.

Caratteristica tipica dei flavivirus è che sono quasi sempre trasmessi attraverso insetti -principalmente pulci e zanzare. E infatti si conoscono numerosi ceppi di flavivirus che si ritrovano regolarmente negli insetti ma che non infettano l’uomo.

Un team dell’IZSLER (Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Lombardia ed Emilia Romagna), con Mattia Calzolari e altri, ha ora identificato sei nuovi flavivirus nelle zanzare di tutta Europa. I virus sono stati ritrovati in Repubblica Ceca, Portogallo, Italia, Spagna e Regno Unito in zanzare di varie specie del genere Aedes -lo stesso della famigerata zanzara tigre.

Ma se non infettano l’uomo, allora di che preoccuparci? Per ora di niente -però si ritiene che i flavivirus che causano malattie, come quello della febbre gialla, si siano effettivamente evoluti da progenitori che vivevano esclusivamente nelle zanzare. In pratica i flavivirus potrebbero imparare, evolvendosi, a saltare dagli insetti agli esseri umani che questi insetti pungono -e, così facendo, causando nuove malattie. Bene tenerli d’occhio, quindi.

Abstract:
Calzolari M, Zé-Zé L, Ruzek D, Vázquez A, Jeffries C, Defilippo F, Costa Osório H, Kilian P, Ruíz S, Fooks AR, Maioli G, Amaro F, Tlusty M, Figuerola J, Medlock JM, Bonilauri P, Alves MJ, Sebesta O, Tenorio A, Vaux AG, Bellini R, Gelbic I, Sánchez-Seco MP, Johnson N, Dottori M., Detection of mosquito-only flaviviruses in Europe. J Gen Virol. 2012 Feb 29. [Epub ahead of print]

La storia del puzzle del metabolismo

Che cos’è una rete metabolica? Immaginate le cellule del vostro corpo come una serie di tante piccole catene di montaggio (o smontaggio): per esempio le molecole di zucchero che ingerite vengono consumate, trasformandole in altre molecole e acquisendo energia man mano che avvengono queste trasformazioni. Ma a ogni passo il prodotto di una reazione chimica può essere usato da più catene di montaggio per scopi differenti (magari da una parte per ricavare energia, dall’altra per costruire qualcosa; un po’ come potete usare la legna per bruciarla nel camino o per costruirci un tavolino, a seconda di quel che vi serve). Viceversa catene di montaggio differenti possono confluire (un po’ come la catena di montaggio dei chiodi e quella delle assi di legno confluiscono a formare il tavolino). Queste catene sono quindi unite assieme diventando una grossa rete di composti che si smontano e rimontano -il metabolismo, appunto.

Ma come si evolve il metabolismo? Ogni reazione del metabolismo è governata da un enzima -ovvero una proteina che agisce come una piccolo operaio che catalizza, e quindi favorisce, una certa reazione. La domanda diventa, quindi, come si sono evoluti gli enzimi che hanno creato la complessa rete del metabolismo, partendo da reti molto più semplici.

A questa domanda hanno risposto Luigi Grassi e Anna Tramontano, rispettivamente del dipartimento di Fisica e dell’istituto Pasteur della Sapienza di Roma. Almeno per quanto riguarda il lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae, un organismo umile ma fondamentale per la ricerca biomolecolare, modello semplificato di tante cose che poi hanno trovato conferma negli esseri umani.

Grassi e Tramontano hanno analizzato la rete metabolica del lievito e hanno analizzato il ruolo che hanno enzimi cosiddetti paraloghi, ovvero che si sono originati da un evento di duplicazione di geni. Che significa? A volte, durante la riproduzione delle cellule, per errore un gene viene “raddoppiato” – come un refuso che ripetesse la stessa frase due volte. Le due copie del gene possono a questo punto evolvere indipendentemente, come due fratelli gemelli che pian piano si specializzino in compiti diversi, diventando sempre meno simili.

I due ricercatori hanno trovato che questo fenomeno di duplicazione genica fa sì che il metabolismo si evolva non in modo lineare ma come un puzzle. Ovvero i geni duplicati diventano capaci ciascuno di catalizzare reazioni diverse da quella originaria o di utilizzare substrati diversi, e quindi aggiungono nuovi percorsi possibili al labirinto di catene di montaggio. Un po’ come se avessimo due operaie gemelle che sanno piantare chiodi, e una delle due si evolvesse man mano, invece, specializzandosi ad avvitare viti, tanto per riprendere il paragone con la catena di montaggio del tavolino di cui sopra. Le novità metaboliche quindi vengono aggiunte un po’ qua un po’ là, man mano che si duplicano i geni e che questi si evolvono per eseguire nuove funzioni.

Espansione (A) e specializzazione (B) della rete metabolica (da Grassi e Tramontano, 2012)

 

Cosa forse ancora più interessante, hanno trovato che ci sono due fasi distinte nell’evoluzione del metabolismo di Saccharomyces cerevisiae. Nella prima la duplicazione di geni ha permesso di espandere il repertorio di enzimi, e quindi di vie metaboliche disponibili al lievito, come abbiamo detto sopra. A giudicare da quanto sono diventati diversi questi enzimi, possiamo stimare che la prima fase si è conclusa ben 350 milioni di anni fa. La seconda fase invece non ha aggiunto nuove strade: gli enzimi duplicati dopo questa fase si sono specializzati invece a catalizzare le stesse reazioni, ma in compartimenti diversi della cellula o regolati in modo diverso. Riprendendo l’esempio del tavolino, è come se avessimo sempre due operaie che piantano chiodi, ma una ad esempio lo fa solo il turno della mattina e una invece si specializza nel lavorare la notte.

Il fatto che la transizione sia così antica è sorprendente, se pensiamo che in natura il lievito S.cerevisiae vive sulla buccia dell’uva -e le prime piante da frutto si sono evolute almeno 200-250 milioni di anni dopo che i progenitori di S.cerevisiae avevano cessato di espandere la loro rete metabolica. Evidentemente i trucchi chimici che avevano imparato milioni di anni prima, microscopici ospiti delle umide foreste del Carbonifero, riescono a essere ancora attuali.

Articolo (open access):
Grassi L, Tramontano A. , Horizontal and vertical growth of S. cerevisiae metabolic network. BMC Evol Biol. 2011 Oct 14;11:301.

Spegnere le fiamme (immunitarie) della distrofia muscolare

Come molte malattie genetiche, la distrofia muscolare di Duchenne (DMD) non è una roba semplice. Il danno principale è dovuto alla mancanza di una proteina chiamata distrofina la quale, detto rozzamente, fa da “chiodo” per le cellule dei muscoli, tenendole agganciate alla matrice che le circonda. Se per un difetto genetico la distrofina manca, le cellule muscolari diventano più vulnerabili e permeabili, e in particolare i loro mitocondri (gli organelli che producono energia dentro le nostre cellule, e di cui i muscoli sono comprensibilmente ricchi) scoppiano.

Questo a sua volta dà la stura a una serie di processi molto complessi, alla fine dei quali comunque il risultato è che il muscolo lentamente si disfa e muore. Processi nei quali è coinvolto il sistema immunitario: già, perchè tutte quelle cellule che stanno male e muoiono attirano ahinoi le cellule del sistema immunitario, le quali “credono” che ci sia da combattere qualche cosa che causa tutto il danno, e causano infiammazione. Infiammazione la quale purtroppo non fa che peggiorare la situazione.

Per questo gli antinfiammatori cortisonici sono utilizzati contro la DMD, ma hanno un bel po’ di effetti collaterali. Sarebbe possibile trovare un farmaco più mirato?

Forse, grazie alla ricerca di Luca Madaro e colleghi della Sapienza di Roma, pubblicata recentemente su PLoS One. I ricercatori si sono focalizzati su un’altra proteina, PKCθ, che sembra avere un ruolo sia nel sistema immunitario, sia nel muscolo scheletrico, suggerendo che possa essere l’anello debole di tutta la catena.

Per capirci qualcosa, i ricercatori hanno preso dei topi privi del gene per la distrofina (che quindi sviluppano la distrofia muscolare) e dei topi senza PKCθ (i quali, se vi interessasse, sono apparentemente praticamente sani). Hanno poi incrociato i due e ottenuto dei topi che mancano sia di distrofina, sia di PKCθ.

Sorpresa: i topi a cui mancano entrambe le proteine sono quasi del tutto sani: non completamente, ma stanno molto meglio dei topi a cui manca solo la distrofina, e in particolare i loro muscoli non hanno quasi più processi infiammatori a devastarli. In pratica togliendo PKCθ abbiamo tolto l’anello della catena che porta alla catastrofica cascata di infiammazione.

Questo cosa significa? Che possiamo pensare di agire sulla distrofia muscolare andando a inattivare la PKCθ. La cosa interessante è che, come dicono gli autori dello studio, di farmaci che inattivano PKCθ pare ce ne siano già: forse questo vuol dire che abbiamo già in mano una terapia per la distrofia, a disposizione.

Articolo (open access):
Madaro L, Pelle A, Nicoletti C, Crupi A, Marrocco V, Bossi G, Soddu S, Bouché M., PKC Theta Ablation Improves Healing in a Mouse Model of Muscular Dystrophy. PLoS One. 2012;7(2):e31515. Epub 2012 Feb 14.

A occhio e croce: come umani e pesci confrontano le quantità

Come fai a dire se un mucchio di cose è più grosso di un altro? Contandolo, è ovvio. Ma a volte non c’è tempo per contare e dobbiamo distinguere al volo, a occhio. Gli animali, del resto, non sanno contare, eppure sanno distinguere se su un albero ci sono due frutti oppure venti, per dire. Altra cosa è capire se ci sono 20 o 21 frutti, nel qualcaso capire a occhio quale dei due è più numeroso diventa molto più difficile.

La cosa interessante è che l’efficienza dipende sia dalla quantità assoluta di oggetti, sia dal loro rapporto. Benchè il rapporto sia lo stesso, è molto più facile distinguere tra un gruppo di 2 e un gruppo di 3 oggetti rispetto a un gruppo di 4 contro un gruppo di 6: è come se nel primo caso il cervello riuscisse a calcolare istintivamente, mentre nel secondo caso sono troppi, e dobbiamo contare. Il limite di norma sta intorno a 4-5 oggetti. Allo stesso modo invece distinguere tra gruppi di cui l’uno è il doppio dell’altro è generalmente facile: il rapporto è abbastanza grande da essere valutato istintivamente.

Questo fenomeno è stato dimostrato non solo negli esseri umani, ma anche in vari animali come le scimmie e gli uccelli, tutti con all’incirca la stessa efficienza. Christian Agrillo e colleghi, dell’Università di Padova, in collaborazione con lo University College London, hanno fatto un passo oltre e hanno trovato che l’efficienza con cui il cervello umano confronta le quantità senza contare è all’incirca la stessa dei pesci- per la precisione pesci da acquario noti come guppies.

Come si fa a confrontare umani e pesci su un compito simile? Per gli umani (studenti universitari) gli hanno mostrato due gruppi di punti su uno schermo per 1/10 di secondo, premendo un pulsante per quello che ritenevano il gruppo di punti più numeroso. Per i pesci, beh, non potendo premere pulsanti, hanno sfruttato il fatto che preferiscono stare in branco, e quindi scegliere di aggregarsi al gruppo più numeroso. Li hanno messi uno alla volta in mezzo a due gruppi di altri guppies, separati da un vetro, e hanno visto dove il povero guppy al centro cercava di andare.

L'apparato sperimentale per i pesci. (da Agrillo et al. 2012)

Il risultato è che la capacità di esseri umani e pesci di valutare le quantità a occhio è praticamente identica: per i numeri fino a 4 sia umani che pesci valutano molto bene le differenze in ogni caso. Per numeri superori a 4, in entrambi i casi l’accuratezza crolla quando la differenza tra i due gruppi va sotto il 50%.

La capacità del cervello di valutare senza contare sembra quindi avere un limite intorno a 4 , o intorno a rapporti di 1 a 2: limiti in qualche modo codificati nel sistema nervoso di tutti i vertebrati, evoluti moltissimo tempo fa, prima ancora che dei vertebrati mettessero piede sulla terra. Insomma, quando fate delle stime “a occhio e croce”, state usando lo stesso sistema che si è evoluto in qualche creatura simile a un pesce, più di 500 milioni di anni fa.

Articolo (open access):
Agrillo C, Piffer L, Bisazza A, Butterworth B. , Evidence for two numerical systems that are similar in humans and guppies. PLoS One. 2012;7(2):e31923. Epub 2012 Feb 15.