Archive for March 25, 2012

In breve

Qualche link veloce ad altri studi apparsi negli ultimi tempi da ricercatori italiani, ma che non stiamo a coprire in dettaglio. Coincidenza vuole che siano tutti romani…

Non solo RNA interference

L’RNA interference è un meccanismo che modula l’espressione genica dopo la trascrizione (cioè, dopo che i geni sono stati “fotocopiati” in RNA e portati nel citoplasma per essere tradotti in proteine) – in particolare, limita l’espressione degradando i RNA. Questo meccanismo è stato usato anche per numerosi studi di genetica. Filippo M. Cernilogar e altri del Dulbecco Telethon Institute a Roma dimostrano che, almeno nel moscerino Drosophila, componenti chiave del sistema di RNA interference funzionano anche a monte, nel nucleo, a livello della trascrizione.

C’è più di un modo di prendere una palla.

Come si fa a prendere una palla? Se non ci sono altre costrizioni particolari, ci sono vari modi: uno può stare fermo aspettando la palla, calcolando dove andrà e lanciandosi all’ultimo momento, oppure seguirla man mano con le mani e il corpo fino a intercettarla. Si potrebbe ipotizzare che però la natura ci abbia dotato di qualche soluzione “generale” per cui tutti alla fine catturiamo le palle più o meno allo stesso modo.

Benedetta Cesqui e altri ricercatori della Fondazione Santa Lucia e dell’Università Tor Vergata hanno invece scoperto che esiste una enorme variabilità individuale nei movimenti che soggetti diversi fanno per prendere una palla, dalla velocità e traiettoria del polso fino alla postura generale del tronco e degli arti. Non solo, queste differenze non sono casuali ma sono costanti da persona a persona, anche a distanza di un anno. Ogni portiere, insomma, ha la sua firma personale.

Come l'acqua si dispone intorno a calcio e magnesio, secondo Bruni et al. (2012)

 

Come cambia l’acqua quando ci sciogli dei sali.

Sciogliere dei sali in acqua cambia la struttura dell’acqua stessa: le molecole d’acqua si riorganizzano intorno agli ioni che formano il sale e li circondano, tenendoli in soluzione. Ma cosa succede esattamente? Sorprendentemente è una cosa ancora poco nota. F.Bruni e altri dell’Università Roma Tre hanno pazientemente osservato, combinando esperimenti di diffrazione di neutroni con simulazioni al calcolatore, come cambia la struttura dell’acqua intorno agli ioni in soluzioni di cloruro di calcio (CaCl2) e cloruro di magnesio (MgCl2).

Calcio e magnesio si comportano differentemente: il magnesio è più piccolo e quindi attira a sè le molecole più strettamente, creando una “simil-molecola” compatta; il calcio invece tiene a sè l’acqua in modo più blando, creando una sorta di cubo distorto e plastico. Abbastanza sorprendentemente, la natura dello ione positivo cambia anche il modo in cui l’acqua si riorganizza intorno allo ione negativo (il cloro, in questo caso): siccome il magnesio tiene l’acqua intorno a sè bella stretta, l’acqua intorno al cloro è meno disponibile e quindi ci sta intorno in modo più “soffice”. Ah, prima che ve lo chiediate: tutto questo non c’entra niente con quella bufala dell’omeopatia.

 

La matematica delle migrazioni umane

Un’equazione per descrivere il comportamento umano: non è cosa facile, ma non per questo non vale la pena provarci. Da molto tempo si cerca di capire, per esempio, se è possibile usare un modello semplice per calcolare i flussi migratori tra città, o i flussi di commercio tra due paesi.

Un modello esiste a partire fin dal 1781 quando il matematico francese Gaspard Monge, da buon newtoniano, inventò un modello che richiama la legge di gravitazione universale ed è infatti noto come “legge di gravità”. Secondo questo modello, la probabilità che delle persone si spostino da una città all’altra, per esempio, è direttamente proporzionale alle popolazioni delle città di partenza, e inversamente proporzionale a una funzione della distanza.

Il modello è giunto fino a noi, con qualche ritocco e generalizzazione, e ha solo un problema: è sbagliato. Per farlo tornare bisogna ritoccare fino a nove parametri: in pratica è solo un modellino ad hoc, incapace di dare previsioni generali. Inoltre non ha una vera giustificazione teorica: si basa su un’analogia vagamente plausibile, e nulla più.

Il mese scorso però i fisici dell’Università di Padova Filippo Simini e Amos Maritan, in collaborazione con il MIT e l’istituto di Fisica di Budapest, hanno finalmente pubblicato su Nature un modello assai più solido.

Il modello è sorprendente perchè la sua dimostrazione prende in considerazione, sia pure in modo molto semplificato, le motivazioni per cui le persone si muovono da un luogo all’altro -ovvero, se per esempio parliamo di pendolari, il numero di lavori disponibili nel luogo di partenza e di arrivo. Ma matematicamente il modello alla fine diventa indipendente da tali motivazioni, e dipende solo dalle popolazioni delle località di partenza e di arrivo: e invece che dalla distanza tra le due, dipende inversamente dalla popolazione totale del circondario, ovvero da quante persone sono nell’area che circonda la località di partenza.

In alto: dati reali di migrazione. Al centro: le previsioni del modello "gravitazionale" classico. In basso: le previsioni del modello di Simini, Maritan e colleghi. Da Simini et al. (2012)

Il modello ottenuto non solo non ha praticamente parametri liberi, e quindi evita l’arbitrarietà del precedente: così com’è predice già molto meglio i flussi migratori all’interno degli Stati Uniti o dell’Europa, dove invece il modello a “legge di gravità” fallisce miseramente.

L’importanza di un simile modello dal punto di vista economico e politico è ovvia. Ma è bellissimo vedere come un comportamento individualmente complesso come la scelta di emigrare o di avere un lavoro lontano da casa possa, su larga scala, essere descritta da un’equazione semplice ed elegante. Ricordatevelo quando vi dicono “la scienza non potrà mai spiegare questo o quello”.

ResearchBlogging.org
Simini, F., González, M., Maritan, A., & Barabási, A. (2012). A universal model for mobility and migration patterns Nature DOI: 10.1038/nature10856

Ultimo atto per i neutrini più veloci della luce

Stavolta il lavoro sporco l’ha già fatto l’ottimo Amedeo Balbi dal suo blog Keplero: vi invito quindi a leggere il suo post. In parole povere, un altro team, ICARUS, (che include numerosi italiani) ha misurato indipendentemente la velocità dei neutrini e questi vanno veloci proprio come la luce. A questo punto le speranze che i risultati di OPERA siano corretti sono praticamente zero.

Non che questo sia un risultato particolarmente inatteso, visti i problemi strumentali che erano emersi come possibile spiegazione, e l’assenza di altri fenomeni che sarebbero stati evidenti se i neutrini fossero andati più veloci della luce: in particolare, particelle veramente più veloci della luce dovrebbero generare l’equivalente della radiazione Cherenkov, che a sua volta è un po’ l’equivalente elettromagnetico del “boom” supersonico. Ma nessuna radiazione di questo tipo è stata osservata.

Intanto vi invito anche a leggere un altro post che ho pubblicato sul mio blog personale, ovvero: si può fare divulgazione scientifica senza leggere le fonti primarie di cui si parla (ovvero i paper)? Secondo me no (anche se qui un paio di volte, lo ammetto, ho bluffato usando il solo abstract per articoli ai quali non avevo l’accesso: ma qui parliamo di giornalisti che si affidano solo a interviste e a comunicati stampa, un abstract resta quanto meno sempre una fonte primaria, per quanto povera e parziale).

 

Ai pulcini piace la buona musica

Magari alcuni di voi (come me) saranno stati avvelenati a forza di musica dodecafonica, harsh noise giapponese e altre stramberie, ma diciamoci la verità: alla maggior parte degli esseri umani piace un minimo di melodia. Dove melodia si traduce, in termini un pelo più tecnici, in musiche che seguano accordi consonanti piuttosto che dissonanti.

Ora, cosa sia consonante o meno è un discorso complicato e che dipende anche un poco dalla storia e cultura musicale in cui vi trovate -ma diciamo che è la differenza tra un accordo di chitarra fatto bene e uno sbagliato, che “stona”, per dire. Non voglio entrare dentro al merito della musicologia (materia in cui sono ignorantissimo), e vi rimando quindi a wikipedia e sopratutto a questo breve e illuminante video dove vi suonano intervalli consonanti e dissonanti.

Uno potrebbe domandarsi se questa preferenza sia esclusiva degli esseri umani. Si sa che alcuni animali possono distinguere tra i due tipi di accordo, ma non si sa se abbiano delle preferenze: in almeno un caso (i tamarin, delle simpatiche scimmiette baffute del Sudamerica) sappiamo di no.

Ora, Cinzia Chiandetti e Giorgio Vallortigara, rispettivamente all’Università di Trento e di Trieste, hanno dato una prima risposta a questa domanda. Sembra infatti che i pulcini delle galline abbiano una moderata ma misurabile preferenza per le musiche consonanti rispetto a quelle dissonanti.

L'apparato sperimentale di Chiandetti e Vallortigara

Per capirlo hanno preso i pulcini appena nati, mai esposti a suoni prima, e li hanno messi in mezzo a due altoparlanti, uno che suona una musica consonante, un altro che suona una versione dissonante della stessa melodia. E i pulcini (a seconda della specifica melodia) preferiscono dirigersi verso l’altoparlante che suona la musica consonante, passando lì vicino dal 55 al 75% del tempo.

Come mai? Gli autori fanno l’ipotesi che questo derivi dal fatto che suoni consonanti abbiano uno spettro di frequenze simile a quello dei suoni che si trovano in natura, e quindi i pulcini abbiano una preferenza innata per tali suoni. Lo studio di Chiandetti e Vallortigara è lungi dall’essere conclusivo (quanto conta il timbro dello strumento? cosa succede confrontando molte melodie diverse? mettere insieme due altoparlanti che suonano due musiche diverse contemporaneamente non genera effetti di sovrapposizione tra le musiche, rischiando di falsare il risultato?) però intanto ci dice che anche un pulcino appena nato può avere dei gusti musicali. Se preferite Burzum a Jovanotti, insomma, potrebbe anche essere questione di geni.

ResearchBlogging.org
Chiandetti, C., & Vallortigara, G. (2011). Chicks Like Consonant Music Psychological Science, 22 (10), 1270-1273 DOI: 10.1177/0956797611418244

Il vuoto che divide in due la luce, e la materia oscura

Avete mai visto un cristallo birifrangente?

È una cosa capace di dividere la luce in due, sdoppiando l’immagine che vi vedete attraverso. Come fa questo cristallo di calcite:

Un cristallo di calcite birifrangente (da Wikipedia)

Questo perchè? Perchè le onde elettromagnetiche che costituiscono la luce hanno una caratteristica detta polarizzazione. Ovvero, in parole molto povere, le onde luminose oscillano in direzioni diverse. Tale direzione si chiama polarizzazione. Così:

La luce che arriva da una sorgente normale (non polarizzata) vibra lungo angoli diversi anche se va nella stessa direzione (vedete le varie onde inclinate l'una rispetto all'altra). Un filtro polarizzatore seleziona solo le onde che oscillano in una direzione.

Chi si occupa di fotografia per esempio avrà quasi certamente usato un filtro polarizzatore, ovvero un filtro che non fa passare la luce che ha una certa polarizzazione rispetto ad esso. Un materiale birifrangente fa una cosa leggermente diversa: invia onde polarizzate diversamente lungo due direzioni leggermente diverse. In pratica divide il vostro fascio di luce in due.

Birifrangenza: luce polarizzata diversamente è inviata in due direzioni diverse dal cristallo.

Che questo lo facciano alcuni cristalli è noto dal 1669, quando lo scoprì il danese Rasmus Bartholin. Ben più recente -e ben più sorprendente- è la predizione che il semplice spazio vuoto possa essere birifrangente, in presenza di un campo magnetico. Questo effetto venne previsto da Werner Heisenberg (quello del principio di indeterminazione) e da un altro fisico tedesco, Hans Heinrich Euler (niente a che vedere col matematico Eulero!). In pratica, il modo in cui la luce passa nel vuoto è diverso a seconda che sia polarizzata parallelamente o meno rispetto al campo magnetico. Le onde elettromagnetiche parallele al campo saranno rallentate rispetto a quelle perpendicolari, e i due tipi di raggi si propagheranno in direzioni diverse.

A livello pratico, per i campi magnetici che possiamo creare qui da noi, l’effetto è assolutamente minuscolo (come forse avrete notato, mettervi un magnete davanti agli occhi non vi fa vedere doppio!) ma è quello che i fisici dell’esperimento PVLAS, condotto tra Ferrara e Padova e guidato da Guido Zavattini, stanno cercando di osservare da numerosi anni (Nel 2005 sembrava che avessero ottenuto dei risultati, ma ahinoi si trattava di un artefatto sperimentale). Recentemente hanno pubblicato su arXiv il loro ultimo rapporto sullo status dell’esperimento, dove annunciano di aver trovato il miglior limite mai misurato alla potenza di tale effetto -ovvero, non l’hanno osservato, e quindi sanno, data la sensibilità dello strumento, quanto può essere forte al massimo.

Perchè questo è importante? PVLAS è importante non solo per confermare le esotiche proprietà del vuoto quantistico sottoposto a immensi campi magnetici (quali possono esistere in natura per esempio vicino a stelle enormemente magnetiche note -non a caso- come magnetar). La birifrangenza del vuoto è strettamente correlata infatti alla presenza o meno di certi tipi teorici di materia oscura -e uno degli obiettivi di PVLAS è capire se esistono certe particelle di materia oscura come ad esempio gli assioni. L’esistenza di queste particelle renderebbe più forte l’effetto di birifrangenza del vuoto, permettendo di conoscerle indirettamente. Per ora PVLAS ci dice soltanto che tale effetto non è ancora abbastanza forte da essere osservato (il che è già qualcosa, in quanto permette di escludere alcune teorie a favore di altre, per esempio). Ma aspettiamo e vediamo: nel frattempo è bello sapere che la fisica italiana fa ottime cose anche al di fuori di LHC.

Preprint:
Guido Zavattini, Ugo Gastaldi, Ruggero Pengo, Giuseppe Ruoso, Federico Della Valle, Edoardo Milotti. Measuring the magnetic birefringence of vacuum: the PVLAS experiment , arXiv:1201.2309v1 [hep-ex], (Submitted on 11 Jan 2012)

Nuovi virus nelle zanzare (per ora)

I flavivirus (letteralmente “virus gialli”) sono delle brutte bestiole: tra di loro si trovano gli agenti patogeni di malattie come la febbre gialla (che dà il nome alla famiglia) il dengue, l’encefalite da zecche e altri malanni più o meno antipatici.

Caratteristica tipica dei flavivirus è che sono quasi sempre trasmessi attraverso insetti -principalmente pulci e zanzare. E infatti si conoscono numerosi ceppi di flavivirus che si ritrovano regolarmente negli insetti ma che non infettano l’uomo.

Un team dell’IZSLER (Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Lombardia ed Emilia Romagna), con Mattia Calzolari e altri, ha ora identificato sei nuovi flavivirus nelle zanzare di tutta Europa. I virus sono stati ritrovati in Repubblica Ceca, Portogallo, Italia, Spagna e Regno Unito in zanzare di varie specie del genere Aedes -lo stesso della famigerata zanzara tigre.

Ma se non infettano l’uomo, allora di che preoccuparci? Per ora di niente -però si ritiene che i flavivirus che causano malattie, come quello della febbre gialla, si siano effettivamente evoluti da progenitori che vivevano esclusivamente nelle zanzare. In pratica i flavivirus potrebbero imparare, evolvendosi, a saltare dagli insetti agli esseri umani che questi insetti pungono -e, così facendo, causando nuove malattie. Bene tenerli d’occhio, quindi.

Abstract:
Calzolari M, Zé-Zé L, Ruzek D, Vázquez A, Jeffries C, Defilippo F, Costa Osório H, Kilian P, Ruíz S, Fooks AR, Maioli G, Amaro F, Tlusty M, Figuerola J, Medlock JM, Bonilauri P, Alves MJ, Sebesta O, Tenorio A, Vaux AG, Bellini R, Gelbic I, Sánchez-Seco MP, Johnson N, Dottori M., Detection of mosquito-only flaviviruses in Europe. J Gen Virol. 2012 Feb 29. [Epub ahead of print]

La storia del puzzle del metabolismo

Che cos’è una rete metabolica? Immaginate le cellule del vostro corpo come una serie di tante piccole catene di montaggio (o smontaggio): per esempio le molecole di zucchero che ingerite vengono consumate, trasformandole in altre molecole e acquisendo energia man mano che avvengono queste trasformazioni. Ma a ogni passo il prodotto di una reazione chimica può essere usato da più catene di montaggio per scopi differenti (magari da una parte per ricavare energia, dall’altra per costruire qualcosa; un po’ come potete usare la legna per bruciarla nel camino o per costruirci un tavolino, a seconda di quel che vi serve). Viceversa catene di montaggio differenti possono confluire (un po’ come la catena di montaggio dei chiodi e quella delle assi di legno confluiscono a formare il tavolino). Queste catene sono quindi unite assieme diventando una grossa rete di composti che si smontano e rimontano -il metabolismo, appunto.

Ma come si evolve il metabolismo? Ogni reazione del metabolismo è governata da un enzima -ovvero una proteina che agisce come una piccolo operaio che catalizza, e quindi favorisce, una certa reazione. La domanda diventa, quindi, come si sono evoluti gli enzimi che hanno creato la complessa rete del metabolismo, partendo da reti molto più semplici.

A questa domanda hanno risposto Luigi Grassi e Anna Tramontano, rispettivamente del dipartimento di Fisica e dell’istituto Pasteur della Sapienza di Roma. Almeno per quanto riguarda il lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae, un organismo umile ma fondamentale per la ricerca biomolecolare, modello semplificato di tante cose che poi hanno trovato conferma negli esseri umani.

Grassi e Tramontano hanno analizzato la rete metabolica del lievito e hanno analizzato il ruolo che hanno enzimi cosiddetti paraloghi, ovvero che si sono originati da un evento di duplicazione di geni. Che significa? A volte, durante la riproduzione delle cellule, per errore un gene viene “raddoppiato” – come un refuso che ripetesse la stessa frase due volte. Le due copie del gene possono a questo punto evolvere indipendentemente, come due fratelli gemelli che pian piano si specializzino in compiti diversi, diventando sempre meno simili.

I due ricercatori hanno trovato che questo fenomeno di duplicazione genica fa sì che il metabolismo si evolva non in modo lineare ma come un puzzle. Ovvero i geni duplicati diventano capaci ciascuno di catalizzare reazioni diverse da quella originaria o di utilizzare substrati diversi, e quindi aggiungono nuovi percorsi possibili al labirinto di catene di montaggio. Un po’ come se avessimo due operaie gemelle che sanno piantare chiodi, e una delle due si evolvesse man mano, invece, specializzandosi ad avvitare viti, tanto per riprendere il paragone con la catena di montaggio del tavolino di cui sopra. Le novità metaboliche quindi vengono aggiunte un po’ qua un po’ là, man mano che si duplicano i geni e che questi si evolvono per eseguire nuove funzioni.

Espansione (A) e specializzazione (B) della rete metabolica (da Grassi e Tramontano, 2012)

 

Cosa forse ancora più interessante, hanno trovato che ci sono due fasi distinte nell’evoluzione del metabolismo di Saccharomyces cerevisiae. Nella prima la duplicazione di geni ha permesso di espandere il repertorio di enzimi, e quindi di vie metaboliche disponibili al lievito, come abbiamo detto sopra. A giudicare da quanto sono diventati diversi questi enzimi, possiamo stimare che la prima fase si è conclusa ben 350 milioni di anni fa. La seconda fase invece non ha aggiunto nuove strade: gli enzimi duplicati dopo questa fase si sono specializzati invece a catalizzare le stesse reazioni, ma in compartimenti diversi della cellula o regolati in modo diverso. Riprendendo l’esempio del tavolino, è come se avessimo sempre due operaie che piantano chiodi, ma una ad esempio lo fa solo il turno della mattina e una invece si specializza nel lavorare la notte.

Il fatto che la transizione sia così antica è sorprendente, se pensiamo che in natura il lievito S.cerevisiae vive sulla buccia dell’uva -e le prime piante da frutto si sono evolute almeno 200-250 milioni di anni dopo che i progenitori di S.cerevisiae avevano cessato di espandere la loro rete metabolica. Evidentemente i trucchi chimici che avevano imparato milioni di anni prima, microscopici ospiti delle umide foreste del Carbonifero, riescono a essere ancora attuali.

Articolo (open access):
Grassi L, Tramontano A. , Horizontal and vertical growth of S. cerevisiae metabolic network. BMC Evol Biol. 2011 Oct 14;11:301.

Una classe politica lungimirante

Non una ricerca adesso, ma una citazione dritta dal blog di Amedeo Balbi su Il Post, che la dice lunga sull’acume della classe dirigente italiana, anche in tempi che oggi vengono rimpianti :

Il Ministro dell’istruzione del lontano 1894, Guido Baccelli, sosteneva ad esempio che gli insegnamenti sperimentali dovevano avere «ciò che è strettamente necessario, e non di più; perché vexatio dat intellectum»: frase che fa ancora più impressione quando ci si rende conto che la citazione latina («la sofferenza induce a riflettere») viene dritta dritta dal manuale dell’inquisitore Bernardo Gui. Ancora, Alcide De Gasperi, nel 1946, sosteneva che la scienza, per carità, era importantissima per lo spirito degli italiani, ma che visti gli «stenti e le privazioni» di cui soffriva il popolo, «parrebbe ironia parlargli di cultura e ricerca scientifica». Più meno simultaneamente, Luigi Einaudi – mentre nazioni provate almeno quanto la nostra dalla guerra appena terminata facevano scelte strategiche di ben altro tenore – negò i finanziamenti urgenti per la ricerca giustificando la scelta con «l’enorme vuoto che già si verifica nel bilancio dello Stato»

 

Spegnere le fiamme (immunitarie) della distrofia muscolare

Come molte malattie genetiche, la distrofia muscolare di Duchenne (DMD) non è una roba semplice. Il danno principale è dovuto alla mancanza di una proteina chiamata distrofina la quale, detto rozzamente, fa da “chiodo” per le cellule dei muscoli, tenendole agganciate alla matrice che le circonda. Se per un difetto genetico la distrofina manca, le cellule muscolari diventano più vulnerabili e permeabili, e in particolare i loro mitocondri (gli organelli che producono energia dentro le nostre cellule, e di cui i muscoli sono comprensibilmente ricchi) scoppiano.

Questo a sua volta dà la stura a una serie di processi molto complessi, alla fine dei quali comunque il risultato è che il muscolo lentamente si disfa e muore. Processi nei quali è coinvolto il sistema immunitario: già, perchè tutte quelle cellule che stanno male e muoiono attirano ahinoi le cellule del sistema immunitario, le quali “credono” che ci sia da combattere qualche cosa che causa tutto il danno, e causano infiammazione. Infiammazione la quale purtroppo non fa che peggiorare la situazione.

Per questo gli antinfiammatori cortisonici sono utilizzati contro la DMD, ma hanno un bel po’ di effetti collaterali. Sarebbe possibile trovare un farmaco più mirato?

Forse, grazie alla ricerca di Luca Madaro e colleghi della Sapienza di Roma, pubblicata recentemente su PLoS One. I ricercatori si sono focalizzati su un’altra proteina, PKCθ, che sembra avere un ruolo sia nel sistema immunitario, sia nel muscolo scheletrico, suggerendo che possa essere l’anello debole di tutta la catena.

Per capirci qualcosa, i ricercatori hanno preso dei topi privi del gene per la distrofina (che quindi sviluppano la distrofia muscolare) e dei topi senza PKCθ (i quali, se vi interessasse, sono apparentemente praticamente sani). Hanno poi incrociato i due e ottenuto dei topi che mancano sia di distrofina, sia di PKCθ.

Sorpresa: i topi a cui mancano entrambe le proteine sono quasi del tutto sani: non completamente, ma stanno molto meglio dei topi a cui manca solo la distrofina, e in particolare i loro muscoli non hanno quasi più processi infiammatori a devastarli. In pratica togliendo PKCθ abbiamo tolto l’anello della catena che porta alla catastrofica cascata di infiammazione.

Questo cosa significa? Che possiamo pensare di agire sulla distrofia muscolare andando a inattivare la PKCθ. La cosa interessante è che, come dicono gli autori dello studio, di farmaci che inattivano PKCθ pare ce ne siano già: forse questo vuol dire che abbiamo già in mano una terapia per la distrofia, a disposizione.

Articolo (open access):
Madaro L, Pelle A, Nicoletti C, Crupi A, Marrocco V, Bossi G, Soddu S, Bouché M., PKC Theta Ablation Improves Healing in a Mouse Model of Muscular Dystrophy. PLoS One. 2012;7(2):e31515. Epub 2012 Feb 14.