La storia del puzzle del metabolismo

Che cos’è una rete metabolica? Immaginate le cellule del vostro corpo come una serie di tante piccole catene di montaggio (o smontaggio): per esempio le molecole di zucchero che ingerite vengono consumate, trasformandole in altre molecole e acquisendo energia man mano che avvengono queste trasformazioni. Ma a ogni passo il prodotto di una reazione chimica può essere usato da più catene di montaggio per scopi differenti (magari da una parte per ricavare energia, dall’altra per costruire qualcosa; un po’ come potete usare la legna per bruciarla nel camino o per costruirci un tavolino, a seconda di quel che vi serve). Viceversa catene di montaggio differenti possono confluire (un po’ come la catena di montaggio dei chiodi e quella delle assi di legno confluiscono a formare il tavolino). Queste catene sono quindi unite assieme diventando una grossa rete di composti che si smontano e rimontano -il metabolismo, appunto.

Ma come si evolve il metabolismo? Ogni reazione del metabolismo è governata da un enzima -ovvero una proteina che agisce come una piccolo operaio che catalizza, e quindi favorisce, una certa reazione. La domanda diventa, quindi, come si sono evoluti gli enzimi che hanno creato la complessa rete del metabolismo, partendo da reti molto più semplici.

A questa domanda hanno risposto Luigi Grassi e Anna Tramontano, rispettivamente del dipartimento di Fisica e dell’istituto Pasteur della Sapienza di Roma. Almeno per quanto riguarda il lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae, un organismo umile ma fondamentale per la ricerca biomolecolare, modello semplificato di tante cose che poi hanno trovato conferma negli esseri umani.

Grassi e Tramontano hanno analizzato la rete metabolica del lievito e hanno analizzato il ruolo che hanno enzimi cosiddetti paraloghi, ovvero che si sono originati da un evento di duplicazione di geni. Che significa? A volte, durante la riproduzione delle cellule, per errore un gene viene “raddoppiato” – come un refuso che ripetesse la stessa frase due volte. Le due copie del gene possono a questo punto evolvere indipendentemente, come due fratelli gemelli che pian piano si specializzino in compiti diversi, diventando sempre meno simili.

I due ricercatori hanno trovato che questo fenomeno di duplicazione genica fa sì che il metabolismo si evolva non in modo lineare ma come un puzzle. Ovvero i geni duplicati diventano capaci ciascuno di catalizzare reazioni diverse da quella originaria o di utilizzare substrati diversi, e quindi aggiungono nuovi percorsi possibili al labirinto di catene di montaggio. Un po’ come se avessimo due operaie gemelle che sanno piantare chiodi, e una delle due si evolvesse man mano, invece, specializzandosi ad avvitare viti, tanto per riprendere il paragone con la catena di montaggio del tavolino di cui sopra. Le novità metaboliche quindi vengono aggiunte un po’ qua un po’ là, man mano che si duplicano i geni e che questi si evolvono per eseguire nuove funzioni.

Espansione (A) e specializzazione (B) della rete metabolica (da Grassi e Tramontano, 2012)

 

Cosa forse ancora più interessante, hanno trovato che ci sono due fasi distinte nell’evoluzione del metabolismo di Saccharomyces cerevisiae. Nella prima la duplicazione di geni ha permesso di espandere il repertorio di enzimi, e quindi di vie metaboliche disponibili al lievito, come abbiamo detto sopra. A giudicare da quanto sono diventati diversi questi enzimi, possiamo stimare che la prima fase si è conclusa ben 350 milioni di anni fa. La seconda fase invece non ha aggiunto nuove strade: gli enzimi duplicati dopo questa fase si sono specializzati invece a catalizzare le stesse reazioni, ma in compartimenti diversi della cellula o regolati in modo diverso. Riprendendo l’esempio del tavolino, è come se avessimo sempre due operaie che piantano chiodi, ma una ad esempio lo fa solo il turno della mattina e una invece si specializza nel lavorare la notte.

Il fatto che la transizione sia così antica è sorprendente, se pensiamo che in natura il lievito S.cerevisiae vive sulla buccia dell’uva -e le prime piante da frutto si sono evolute almeno 200-250 milioni di anni dopo che i progenitori di S.cerevisiae avevano cessato di espandere la loro rete metabolica. Evidentemente i trucchi chimici che avevano imparato milioni di anni prima, microscopici ospiti delle umide foreste del Carbonifero, riescono a essere ancora attuali.

Articolo (open access):
Grassi L, Tramontano A. , Horizontal and vertical growth of S. cerevisiae metabolic network. BMC Evol Biol. 2011 Oct 14;11:301.

Una classe politica lungimirante

Non una ricerca adesso, ma una citazione dritta dal blog di Amedeo Balbi su Il Post, che la dice lunga sull’acume della classe dirigente italiana, anche in tempi che oggi vengono rimpianti :

Il Ministro dell’istruzione del lontano 1894, Guido Baccelli, sosteneva ad esempio che gli insegnamenti sperimentali dovevano avere «ciò che è strettamente necessario, e non di più; perché vexatio dat intellectum»: frase che fa ancora più impressione quando ci si rende conto che la citazione latina («la sofferenza induce a riflettere») viene dritta dritta dal manuale dell’inquisitore Bernardo Gui. Ancora, Alcide De Gasperi, nel 1946, sosteneva che la scienza, per carità, era importantissima per lo spirito degli italiani, ma che visti gli «stenti e le privazioni» di cui soffriva il popolo, «parrebbe ironia parlargli di cultura e ricerca scientifica». Più meno simultaneamente, Luigi Einaudi – mentre nazioni provate almeno quanto la nostra dalla guerra appena terminata facevano scelte strategiche di ben altro tenore – negò i finanziamenti urgenti per la ricerca giustificando la scelta con «l’enorme vuoto che già si verifica nel bilancio dello Stato»

 

Spegnere le fiamme (immunitarie) della distrofia muscolare

Come molte malattie genetiche, la distrofia muscolare di Duchenne (DMD) non è una roba semplice. Il danno principale è dovuto alla mancanza di una proteina chiamata distrofina la quale, detto rozzamente, fa da “chiodo” per le cellule dei muscoli, tenendole agganciate alla matrice che le circonda. Se per un difetto genetico la distrofina manca, le cellule muscolari diventano più vulnerabili e permeabili, e in particolare i loro mitocondri (gli organelli che producono energia dentro le nostre cellule, e di cui i muscoli sono comprensibilmente ricchi) scoppiano.

Questo a sua volta dà la stura a una serie di processi molto complessi, alla fine dei quali comunque il risultato è che il muscolo lentamente si disfa e muore. Processi nei quali è coinvolto il sistema immunitario: già, perchè tutte quelle cellule che stanno male e muoiono attirano ahinoi le cellule del sistema immunitario, le quali “credono” che ci sia da combattere qualche cosa che causa tutto il danno, e causano infiammazione. Infiammazione la quale purtroppo non fa che peggiorare la situazione.

Per questo gli antinfiammatori cortisonici sono utilizzati contro la DMD, ma hanno un bel po’ di effetti collaterali. Sarebbe possibile trovare un farmaco più mirato?

Forse, grazie alla ricerca di Luca Madaro e colleghi della Sapienza di Roma, pubblicata recentemente su PLoS One. I ricercatori si sono focalizzati su un’altra proteina, PKCθ, che sembra avere un ruolo sia nel sistema immunitario, sia nel muscolo scheletrico, suggerendo che possa essere l’anello debole di tutta la catena.

Per capirci qualcosa, i ricercatori hanno preso dei topi privi del gene per la distrofina (che quindi sviluppano la distrofia muscolare) e dei topi senza PKCθ (i quali, se vi interessasse, sono apparentemente praticamente sani). Hanno poi incrociato i due e ottenuto dei topi che mancano sia di distrofina, sia di PKCθ.

Sorpresa: i topi a cui mancano entrambe le proteine sono quasi del tutto sani: non completamente, ma stanno molto meglio dei topi a cui manca solo la distrofina, e in particolare i loro muscoli non hanno quasi più processi infiammatori a devastarli. In pratica togliendo PKCθ abbiamo tolto l’anello della catena che porta alla catastrofica cascata di infiammazione.

Questo cosa significa? Che possiamo pensare di agire sulla distrofia muscolare andando a inattivare la PKCθ. La cosa interessante è che, come dicono gli autori dello studio, di farmaci che inattivano PKCθ pare ce ne siano già: forse questo vuol dire che abbiamo già in mano una terapia per la distrofia, a disposizione.

Articolo (open access):
Madaro L, Pelle A, Nicoletti C, Crupi A, Marrocco V, Bossi G, Soddu S, Bouché M., PKC Theta Ablation Improves Healing in a Mouse Model of Muscular Dystrophy. PLoS One. 2012;7(2):e31515. Epub 2012 Feb 14.

A occhio e croce: come umani e pesci confrontano le quantità

Come fai a dire se un mucchio di cose è più grosso di un altro? Contandolo, è ovvio. Ma a volte non c’è tempo per contare e dobbiamo distinguere al volo, a occhio. Gli animali, del resto, non sanno contare, eppure sanno distinguere se su un albero ci sono due frutti oppure venti, per dire. Altra cosa è capire se ci sono 20 o 21 frutti, nel qualcaso capire a occhio quale dei due è più numeroso diventa molto più difficile.

La cosa interessante è che l’efficienza dipende sia dalla quantità assoluta di oggetti, sia dal loro rapporto. Benchè il rapporto sia lo stesso, è molto più facile distinguere tra un gruppo di 2 e un gruppo di 3 oggetti rispetto a un gruppo di 4 contro un gruppo di 6: è come se nel primo caso il cervello riuscisse a calcolare istintivamente, mentre nel secondo caso sono troppi, e dobbiamo contare. Il limite di norma sta intorno a 4-5 oggetti. Allo stesso modo invece distinguere tra gruppi di cui l’uno è il doppio dell’altro è generalmente facile: il rapporto è abbastanza grande da essere valutato istintivamente.

Questo fenomeno è stato dimostrato non solo negli esseri umani, ma anche in vari animali come le scimmie e gli uccelli, tutti con all’incirca la stessa efficienza. Christian Agrillo e colleghi, dell’Università di Padova, in collaborazione con lo University College London, hanno fatto un passo oltre e hanno trovato che l’efficienza con cui il cervello umano confronta le quantità senza contare è all’incirca la stessa dei pesci- per la precisione pesci da acquario noti come guppies.

Come si fa a confrontare umani e pesci su un compito simile? Per gli umani (studenti universitari) gli hanno mostrato due gruppi di punti su uno schermo per 1/10 di secondo, premendo un pulsante per quello che ritenevano il gruppo di punti più numeroso. Per i pesci, beh, non potendo premere pulsanti, hanno sfruttato il fatto che preferiscono stare in branco, e quindi scegliere di aggregarsi al gruppo più numeroso. Li hanno messi uno alla volta in mezzo a due gruppi di altri guppies, separati da un vetro, e hanno visto dove il povero guppy al centro cercava di andare.

L'apparato sperimentale per i pesci. (da Agrillo et al. 2012)

Il risultato è che la capacità di esseri umani e pesci di valutare le quantità a occhio è praticamente identica: per i numeri fino a 4 sia umani che pesci valutano molto bene le differenze in ogni caso. Per numeri superori a 4, in entrambi i casi l’accuratezza crolla quando la differenza tra i due gruppi va sotto il 50%.

La capacità del cervello di valutare senza contare sembra quindi avere un limite intorno a 4 , o intorno a rapporti di 1 a 2: limiti in qualche modo codificati nel sistema nervoso di tutti i vertebrati, evoluti moltissimo tempo fa, prima ancora che dei vertebrati mettessero piede sulla terra. Insomma, quando fate delle stime “a occhio e croce”, state usando lo stesso sistema che si è evoluto in qualche creatura simile a un pesce, più di 500 milioni di anni fa.

Articolo (open access):
Agrillo C, Piffer L, Bisazza A, Butterworth B. , Evidence for two numerical systems that are similar in humans and guppies. PLoS One. 2012;7(2):e31923. Epub 2012 Feb 15.

La donna che scrive come Leonardo

Ovvero come allo specchio. È qualcosa che ogni tanto capita anche alle persone normali; nel 2004 avevano ipotizzato fosse genetico ma a volte te lo puoi beccare con un incidente.

È anche il caso della paziente riportata da Canzano, Piccardi et al. , dell’Università di Roma, su Neurocase, la quale ha iniziato a scrivere “al contrario” dopo un ictus. E come mai? A giudicare dall’abstract (ahimè non ho accesso all’articolo intero), perchè l’ictus ha danneggiato tutta la rappresentazione di sè della paziente. Ovvero, non riesce più a distinguere destra da sinistra e ha problemi nell’identificare la posizione delle parti del proprio corpo: in pratica scrive al contrario perchè si percepisce al contrario. Oliver Sacks, dove sei?

Abstract:
Canzano L, Piccardi L, Bureca I, Guariglia C. , Mirror writing resulting from an egocentric representation disorder: a case report. Neurocase. 2011 Oct;17(5):447-60.

 

Il primo caso di HIV-2 in Italia

Quanti tipi di HIV esistono? Principalmente due, chiamati -con non molta fantasia- HIV-1 e HIV-2. A loro volta questi si dividono in numerosi sottotipi, ma la cosa interessante di HIV-1 e HIV-2 è che essi sono giunti a infettare l’uomo indipendentemente: HIV-1 si è originato infatti negli scimpanzè, mentre HIV-2 in un altro tipo di scimmia, il cercocebo moro.

Il grosso delle infezioni umane da HIV è dovuta a HIV-1. Finora HIV-2 era confinato quasi solo all’Africa, anche se già nel 1987 si era visto negli Stati Uniti. I flussi migratori dall’Africa però, prevedibilmente, stanno portando HIV-2 anche in Europa.

Era quindi solo questione di tempo: Massimo Ciccozzi et al. , dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma, riportano il primo caso noto di infezione da HIV-2 in un cittadino italiano. Il virus sembra appartenere a un sottotipo simile a quello isolato da un immigrato francese.

Fortunatamente HIV-2 in media è meno virulento di HIV-1 e genera AIDS più lentamente. Sfortunatamente però i test diagnostici per HIV-1 (quelli normalmente usati in Occidente) sono poco affidabili per HIV-2. Sarà bene aggiornarsi.

Abstract:
Ciccozzi M, Babakir-Mina M, Cella E, Bertoli A, Lo Presti A, Maniar JK, Perno CF, Ciotti M. A case of Italian HIV type 2 infection: a genetic analysis. AIDS Res Hum Retroviruses. 2011 Dec;27(12):1333-5. doi: 10.1089/aid.2011.0055.